Insegnare è una delle attività più alte e delicate che una persona compie nei confronti di un’altra ed è un compito arduo: bisogna imparare a gestire le molteplicità del gruppo e i bisogni di ciascuno, pensare a modalità comunicative efficaci, impostare una relazione significativa con tutti (colleghi, alunni e genitori). E per fare ciò, non bisogna arrivare impreparati. 

Il tempo estivo, infatti, è per i docenti non solo tempo di riposo, ma anche tempo di aggiornamento, di programmazione per il nuovo anno scolastico, di riprogettazione degli argomenti da trattare, di lettura, studio ed approfondimento di libri che si sarebbero voluti leggere durante l’anno scolastico ma che – per via dei tanti impegni scolastici (come consigli, ricevimenti, incontri di dipartimento, GLO, collegi, scrutini ecc.) – non si è riusciti a leggere. 

Per cui, anche per i docenti la scuola non è davvero finita. Anzi se ne presenta un’altra, che è quella chiamata ad alimentare il fuoco.

L’altra scuola, di cui questa rivista vuol parlare, consiste proprio nel rinvigorire la motivazione, nel rinsaldare la propria vocazione “magistrale”, che il più delle volte è affievolita e, persino avvilita, dalla burocrazia delle carte. 

Ecco allora uno primo tratto dell’altra scuola: riscoprire il nuovo nello stesso.

A questo proposito sarebbe interessante leggere o riprendere tra le mani, qualora lo si fosse già letto, un bellissimo libro dello psicanalista italiano Massimo Recalcati: L’ora di lezione. Per una erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014. È un testo pieno di spunti di riflessione per chi vorrebbe alimentare o rivitalizzare la motivazione e la passione nell’insegnamento.

Un altro libretto curioso da leggere sarebbe quello del giurista italiano Gustavo Zagrebelsky: La lezione, Einaudi, Torino 2022. In quest’ultimo, l’autore fa una riflessione che parte dal luogo fisico della lezione (come la descrizione dell’aula) per poi giungere ai luoghi interiori dove si svolge la vera lezione (il silenzio da conquistare, lo stimolo di riflessioni non banali, la verifica e la valutazione).

In questa sede ci si limiterà a dare, attraverso qualche citazione, un assaggio di ambedue i testi nell’indagare i tratti dell’altra scuola, che gli insegnanti vivono da giugno ai primi di settembre.

Un secondo tratto è quello degli esami: si pensi ai docenti della scuola secondaria di primo e secondo grado e dell’Università, impegnati anche nelle sedute di laurea.

Come anche i docenti della scuola dell’infanzia e della primaria che, pur non avendo esami, sono impegnati nella sistemazione dei materiali e delle aule per l’accoglienza dei nuovi piccoli alunni nel mese di settembre.

Un terzo tratto è dedicato alla formazione: ci sono, difatti, tanti docenti che usufruiscono del tempo estivo per partecipare a corsi di formazione e di aggiornamento, O anche colleghi che si preparano per i futuri concorsi. Altri ancora viaggiano non per il semplice piacere di fare una vacanza, ma anche per toccare con mano quello che sono chiamati a trasmettere in classe o per consolidare le proprie competenze nell’apprendere le lingue straniere. Tali attività rientrano nella “formazione obbligatoria, permanente e strutturale”, disciplinata dalle Legge 107 del 2015.

Un quarto tratto dell’altra scuola rappresenta il reperire nuovi materiali o il raccogliere e sistemare quelli che si hanno già. Ci sono anche docenti, per esempio, che preparano in anticipo attività, documenti e lezioni per le ricorrenze e gli anniversari che saranno celebrati nell’anno scolastico successivo. 

Un quinto tratto è fare memoria delle storie dei propri studenti. Perché l’insegnamento possa giungere a buon fine, il docente deve creare con gli alunni innanzitutto una “relazione”, la quale deve avere almeno tre qualità: la genuinità, che è il mostrarsi così come si è; la stima, che è la fiducia per e nell’altro e la comprensione empatica, che è la capacità di capire e carpire le reazioni intime di scontro e di incontro dell’alunno.

Si deve ricordare, però, che tale legame che si deve instaurare tra l’insegnante e l’allievo è sempre asimmetrico. Così scrive a riguardo Massimo Recalcati nel libro succitato: «Il maestro e l’allievo non occupano posti identici, non sono uguali. Una differenza simbolica ripartisce nettamente le loro posizioni: sono separati come lo sono il padre con il figlio. La trasmissione del sapere s’inscrive sempre in un processo di filiazione» (p. 102).

Un altro tratto importante dell’altra scuola rappresenta il riposo. Il docente, come qualsiasi altro lavoratore, ha bisogno di fermarsi e di riposare. Anche il lavoro della mente, come quello delle mani, ha bisogno delle sue pause, perché quando la mente è stanca anche lo spirito interiore arranca.

Si dovrebbe cominciare a spazzar via il luogo comune che spesse volte circola sulla piazza pubblica e mediatica che chi ha a che fare con lo studio si stanca di meno.

L’insegnante non è un mero trasmettitore di nozioni e lezioni già pronte, ma un ricercatore che ha bisogno anche di ridisegnare le proprie lezioni. E questo può farlo anche d’estate.

Un settimo tratto dell’altra scuola è il passaggio da modello di educazione trasmissiva ad uno di educazione generativa.

Mentre nel modello trasmissivo, infatti, chi educa rimane rigido e fermo nelle sue posizioni, è più legato al contenuto che alla persona che ha davanti, è incentrato più sui risultati che sui processi, nel modello dell’educazione generativa, invece, chi educa è disposto a mettersi in gioco continuamente, riuscendo a interagire con i cambiamenti in atto, allo scopo di interpretarli e cercare insieme di capire la chiave dei problemi nuovi che essi pongono, senza dare soluzioni già belle e fatte, ma ponendo domande nuove per insegnare ad abitare gli interstizi delle transizioni e a sapersi confrontare, facendo i conti con le grandi incertezze. Solo così si insegnerà ai giovani a saper gestire i momenti di passaggio, affinché imparino a navigare senza però naufragare.

L’educazione generativa è certamente più faticosa ed è proprio di chi si lascia “ribaltare”. Si tratta di insegnare le erranze. Perché – parafrasando ancora le parole di Massimo Recalcati – educare non è evitare di cadere ma insegnare a sapersi rialzare, imparando anche dai propri fallimenti e dalle proprie ferite. Perché non è la perfezione che si deve insegnare. E tutto questo non tanto per sgomitare e arrivare a vincere a tutti i costi, ma per non trovarsi nella situazione di chi, dopo essere cresciuto, si ritrova in età adulta incapace di guardarsi accanto perché incapace di guardarsi dentro.

E per far ciò, bisogna studiare e studiarsi.

Ecco, quindi, un nono tratto: anche il professore deve studiarsi. Scrive a questo proposito Zagrebelsky nel libro su consigliato: «[…] Verificare che quello che sa e che trasmette non sia impigliato nel grigiore del già saputo e dell’ammuffito. Non sarà anche colpa del professore che non sa scrollarsi di dosso l’abito del burocrate che reitera parole risapute e moltiplica carte già compilate da altri, ormai prive di vita? Per far questo, basterebbe un “ripetitore”, una registrazione su un “supporto” che si può riascoltare, sempre uguale, tutte le volte che si vuole; non c’è bisogno d’un professore. “Professore” viene da profaíno, “faccio apparire”, “proferendo, faccio luce”, o “faccio venire alla luce”, come fa la levatrice socratica» (p. 50).

Un decimo tratto che può caratterizzare l’altra scuola è quello di ridisegnare i propri moduli didattici a partire dalla ricchezza dell’interdisciplinarietà e della transdisciplinarietà. 

Sarebbe interessante andare a guardare i programmi svolti dei propri colleghi per cercare di trovare collegamenti che permettono allo studente di conoscere un argomento alla luce delle diverse prospettive disciplinari. Così facendo, lo studente imparerà che le discipline non sono dei compartimenti stagni o rette parallele che non si incontrano mai, ma che la completezza della presentazione di un determinato argomento consiste da uno sguardo che viene da più parti. 

Scrive ancora Zagrebelsky: “Sono necessari gli sconfinamenti”, “per scrutare sempre più giù, nel profondo; ma essenziale è anche guardarsi lateralmente, da quante più parti siamo capaci” (pp. 54ss).

E per far ciò ovviamente bisogna incontrarsi, parlarsi, arricchirsi l’un l’altro e leggere nuovi libri. 

Tutto questo percorso di ricerca e di relazioni porta all’approdo della lezione, che a sua volta diviene un altro cammino di fatica e di soddisfazione.

Lo spiega molto bene ancora Gustavo Zagrebelsky, quando indagando l’etimologia scrive che questa parola «proviene dal verbo légein e ha a che fare con l’atto di raccogliere, del radunare, del mettere insieme: e non a casaccio, ma selezionando e scegliendo, come sanno i col-lezionisti»(p. 3).

Durante la lezione, l’insegnante è colui che è chiamato a spiegare, cioè a togliere le pieghe alle cose, ma senza togliere le piaghe alle cose, cioè il loro mistero, l’aspetto che non si può spiegare: infatti, «il sapere non si può mai sapere tutto perché – come scrive Recalcati – è per struttura bucato; vi è, in altre parole, una impossibilità di sapere tutto il sapere» (p. 5).

Il sapere, perciò, ha bisogno anche di digressioni, che sono piste e non approdi.

La lezione ha così un potere “fermentativo”. Rendono molto bene questo concetto le parole di Pavel Florenskij, riportate da Zagrebelsky nella quarta di copertina del suo libro: «Una lezione non è un tram che vi porta da un posto all’altro, ma è una passeggiata con gli amici».

Il docente, infine, è ancora anche colui che deve imparare a sostare al crocevia, dove si mostrano più chiari il cammino compiuto e quello ancora da percorrere. Sa che davanti a sé non ha numeri, ma dei volti, volti che nascondono storie. Sa far venire fuori i talenti nascosti e valutare l’apprendimento, il quale «non avviene per travaso passivo da un bicchiere più pieno a uno più vuoto, perché il modello sul quale si fonda non è mai quello di un vuoto da riempire quanto di un vuoto da aprire». (Recalcati, p. 43)

Tutti questi tratti dell’altra scuola permettono di preparare un po’ di più il docente che a settembre tornerà in classe, con la ferma consapevolezza che un’ora di lezione può salvare la vita.

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